Qualche sera fa guardavo un film e c’era questo tizio che correva, faceva jogging sotto un’acqua scrosciante. L’inquadratura ravvicinata lo mostrava bagnato fradicio ma con un’aria soddisfatta, traspariva una determinazione che derivava, probabilmente, dallo sforzo fisico.
Un’immagine che in qualche modo, non so come, mi ha colpita profondamente e così il giorno dopo ho cominciato a correre anche io.
Sono quattro giorni che mi alzo alle sei del mattino, infilo un equipaggiamento spannometricamente sportivo e percorro due chilometri alternando corsa e camminata.
Il primo giorno è stato un dramma, non riuscivo nemmeno a parlare tanta era la fatica. Mi sentivo addosso una zavorra di chili, mi percepivo come un elefante che dopo anni di inattività decide di muovere la propria stazza.
Non so cosa mi spinga a tirare giù i piedi quando ancora è buio e infilare il kway, ma stamattina non volevo rientrare nonostante fossi arrivata al cancello di casa. Ero mossa da una spinta interiore che mi urlava “ancora! ancora!”.
Probabilmente si risvegliano delle sostanze nelle cellule che tramutano lo sforzo fisico in droga e si diventa dipendenti della fatica. Inconsciamente diventa anche una sfida nel provare a superare i propri limiti soprattutto fisici, a non darla vita alla pigrizia, al sonno, ai dolori che prendono le gambe dopo duecento metri. Ci sono varie pesantezze da cui tentiamo di liberarci.
Ora sono dolorante e cammino come i robot di Star Wars ma attendo con trepidazione le sei di domani mattina per ripartire. E ho pure valutato un percorso leggermente più lungo.
Un elefante autolesionista.